Il festival internazionale del Cinema Mediterraneo ha quasi 30 anni. Montpellier, città internazionale di provincia, nel sud della Francia, ha accolto ancora una volta con generosità il viaggio sulle rive di questo mare (26 ottobre-4 novembre). Alcune polemiche locali, sul registro del festival e sul ruolo del grande finanziatore (l’Agglomération di Montpellier, con il suo presidente Gorges Frêche, nonché governatore socialista della Regione Languedoc-Roussillon) hanno preceduto - fuori campo - l’inaugurazione della sua 29 edizione. Più di 200 i film presentati: 11 lungometraggi in concorso, 16 nella selezione panorama, più di 40 i cortometraggi, una decina i documentari. Da ricordare che il festival ha accolto nel 2001 un corto di Cristian Mungiu, vincitore quest’anno a Cannes con 4 mesi, 3 settimane e 2 giorni.
L’Antigone d’Or è stato attribuito al bel film della registra greca Angeliki Antoniou, Eduart. E’ un film molto duro, psicologico, tratto da una storia vera, la storia di un giovane albanese immigrato clandestinamente, in un clima di ostracismo, in Grecia, dove commette un omicidio. E’ una storia di “redenzione” personale e sul senso della giustizia, in un contesto sociale caratterizzato dal mondo del carcere nell’orizzonte di eclissi dello stato socialista albanese.
Mastroianni, Monicelli, il Mediterraneo
Sullo sfondo, il grande protagonista è stato il cinema italiano di Marcello Mastroianni a cui gli organizzatori hanno dedicato questa edizione: sul grande schermo i francesi hanno molto apprezzato i cult da Le pigeon (I soliti ignoti) alla Dolce vita. Fra gli invitati d’onore Mario Monicelli. Il “grande vecchio” del cinema, più in forma che mai, si è quasi “rubato” vent’anni presentando il suo ultimo film Le rose del deserto, tratto dal diario di Mario Tobino, sugli Italiani in Libia, “coinvolti in una guerra stupida e insensata”, quando racconta che lui vi aveva partecipato appena quarant’ani fa…. Fra i grandi assenti Emir Musturica che non è venuto a presentare Promise me.
Nelle “avant-premières”, gli italiani Riparo dell’“indipendente” Marco Puccioni, che attraversa lo spazio degli ordinari pregiudizi della società italiana (una coppia lesbica che accoglie un ragazzo marocchino clandestino) e Attrici di Valeria Bruni-Tedeschi, protagonista di storie di solitudine e frustrazione delle quarantenni parigine. Fra gli altri diversi film italiani presenti: L’abbuffata di Calopresti (premiato per le musiche di Sergio Cammariere), Una notte di Toni d’Angelo (girato a Napoli con Nino d’Angelo nelle vesti di un tassista), i bellissimi corti di Filippo Soldi (Solo Cinque Minuti), di Manuela Rossi (Il bambino di Carla) e di Francesco Satta (Lacrime Napoletane).
Il Cinemed permette di viaggiare e di scoprire il Mediterraneo: con i suoi suoni, le sue lingue (dal turco al berbero al serbo-croato), le sue tensioni, i conflitti, l’ironia, i sogni, il mal di vivere al quotidiano. Le baracche sono sempre presenti. Un elemento costante: dalle bidonvilles del Nord Africa a quelle di Madrid degli anni ‘60 (El Lute di Vicente Aranda, che ricorda tanto, per altro, Banditi a Orgosolo di Vittorio de Seta), al Can Tunis, un documentario di José Gonzales e Paco Toledo, girato in un quartiere di gitani nei pressi del porto di Barcellona, diventato prima della sua distruzione un luogo di degrado e di perdizione.
Palestina e Israele
Uno degli aspetti più importanti di questo festival è che dà la possibilità di vedere al contempo dei film palestinesi e israeliani. Sebbene le condizioni di produzione in Palestina siano difficili, recentemente si sono potuti vedere qui il film di Hany Abu-Assad Il matrimonio de Rana (2002) e di Eli Suleiman Intervento divino (2001). Dopo la presentazione a Montpellier, questi due film hanno avuto un successo rilevante. Tuttavia, a causa dei problemi di finanziamento e di distribuzione, i film palestinesi sono in genere dei documentari che si concentrano sulla vita ordinaria e sui problemi posti dall’occupazione israeliana. Il cinema israeliano è molto più produttivo, grazie ai suoi vantaggi finanziari e politici. Sono soprattutto i film con un discorso politico e sociale che si possono vedere a Montpellier, e che non possono essere dissociati dalla questione dell’occupazione israeliana.
Da parte palestinese, Palestine Blues (Mawal Filistini), che ha ricevuto al Cinemed il Prix Ulysse 2007, è un documentario sulla costruzione del muro di separazione fra Israele e la Cisgiordania. Il regista Nida Sinnokrot è un Americano di origine palestinese. Il passaporto USA gli ha permesso una grande libertà di movimento in Israele e nei Territori occupati. Il film comincia con una sequenza sulle condizioni di vita a Gaza e sulle circostanze della morte della militante americana Rachel Corrie, schiacciata da un bulldozer a Rafah nel 2003, mentre si opponeva alla distruzione delle case. Poi ci fa capire le strategie di costruzione del “muro della vergogna” e le conseguenze concrete sulla vita degli abitanti che vivono nei suoi pressi. Concepito per separare gli Israeliani dai Palestinesi, il muro sarà fondamento di miseria e odio per le generazioni future.
Da parte israeliana, Sweete Mud (Adama Meshuga’at), film di Dror Shaul che ha ricevuto il Prix Jeune Public, ci porta nella vita di un kibbuz agli inizi degli anni ’70: nel cuore di un ambiente chiuso e protetto dove un’uguaglianza irreggimentata lascia poco spazio per l’individualità, e ancor meno per la contestazione. Le prime immagini danno il tono. Il kibbuz di notte, circondato da una barriera di filo spinato è illuminato da fari abbaglianti. Una pattuglia armata circola in jeep. All’interno, i residenti vivono in case individuali o in dormitori comuni. Tutti i neonati sono radunati nello stesso posto, e sorvegliati con un sistema di controllo sonoro che ne trasmette il pianto. Qui le tensioni emotive sono trascurate e si sviluppano complicazioni perverse. Crudeltà, autoritarismo, ma anche bestialità, sono mostrati come sintomi della frustrazione sociale e della deprivazione culturale. La violenza è latente. Può emergere e esplodere all’improvviso. Dietro l’immagine-modello della società israeliana che il kibbuz rappresenta, con le vestigia dell’utopia comunitaria, Shaul mostra un ordine sociale e morale paranoico che spinge i kibbuzin più sensibili al limite della follia e i più conformisti a comportati di tipo spicopatologico. In questo bel film non appare alcun riferimento ai Palestinesi. Vi è solo un’atmosfera di tensione. Il kibbuz di Shaul è emblematico di un mondo mantenuto in uno stato di paura e di insicurezza, prodotto dal suo isolamento dagli “altri”.
La Spagna e la retrospettiva di Aranda
Queste situazioni non sono proprie ad un solo paese. Possono anche essere esplorate nello sguardo dello spagnolo Vicente Aranda, a cui è dedicata una retrospettiva, a partire dal suo primo lungometraggio Fata Morgana (1966) fino ai suoi film più recenti, La muchacha de las bragas de oro (1980) con protagonista una giovane Victoria Abril, a La pasiòn turca (1994) o ancora la Mirda del otro (1997) fino a Juana la Loca (2001) e Tirante el Blanco (2006). Vi dominano i temi dell’ordine sociale e politico repressivo e la produzione degli ordini spichici e morali. Il fascismo, nella sua forma franchista, non è il punto focale nei film di Aranda, ma è sempre presente sullo sfondo. 40 anni di repressione politica e morale rafforzata dalla Chiesa e dallo Stato hanno prodotto una società per la quale il desiderio di libertà è esploso dopo la morte del caudillo. Il risultato è la liberazione dai fantasmi sessuali in una forma pornografica e la confusione fra sesso e amore, prodotti in un’atmosfera di libertà incosciente. Sebbene i film di Aranda siano spesso visti come espressioni artistiche di una certa liberazione, appaiono piuttosto delle analisi sulla confusione morale e dei tentativi inconclusi di trascendere le alienazioni accumulate durante i quattro decenni di oppressione franchista.
L’Algeria, la Turchia, il Libano
Tre film algerini sono particolarmente interessanti. Illustrano, pur nella loro diversità, un vasto spettro della complessa storia contemporanea di questo paese. Se si considera Li fet met (Il passato è morto), girato e prodotto da Nadia Bouferkas e Mehmet Arikan, si capisce facilmente perché quasi tutti i film sull’Algeria hanno a che fare con la dominazione coloniale e neocoloniale. In particolare con un rapporto assai ambiguo, al contempo fragile e viscerale, con la Francia, mai completamente assimilato e risolto. Questo documentario fa parlare la gente un villaggio che è stato un centro di detenzione della SAS (Section Spéciale Administrative), creata nel 1956 dall’esercito francese per pacificare l’Algeria. Vi si ritrovano oggi a vivere gli uni accanto agli altri nelle baracche - e nelle strade colme di fango così come quarant’anni prima - le famiglie di mujahiddin (partigiani) che hanno combattuto per l’Indipendenza, alcune famiglie di Suppletifs, o Harkis, che hanno invece collaborato e combattuto con la Francia, e rifugiati degli ultimi “anni bui” del terrorismo. Nella resurrezione della memoria di questo luogo “si incrociano destini di un popolo tradito”, dove il passato morto è sempre inerte e in agguato, mentre la voce di un rifugiato ci dice che “il clan dei mujahiddin che ha preso il potere a Algeri” nel 1962, ha messo in atto nuova forma di dominazione. La maison jaune, di Amor Hakkar è un film poetico, girato nell’Aurès: metafora della rassegnazione e della speranza, in un villaggio ai margini del mondo globale, dove un padre contadino cerca di ridare il sorriso alla madre, dopo la morte del figlio. Altre divisioni del popolo algerino sono presenti nel film di Nadia Cherabi, Dietro lo specchio, che parla delle violenze familiari e dell’abbandono di un neonato a Algeri, con un esito a lieto fine dal sapore di favola sul registro un po’ troppo calcato sui classici egiziani.
Sul tema della violenza femminile e della crudeltà dei costumi tradizionali un’altra bella storia turca, è stata premiata dal pubblico del festival: Delivrance di Abdullah Ogüz. Il cinema turco, molto prolifico, è stato presente a Montpellier con diversi altri film come Riza di T. Pirselimoglu e International di Onder e Gülmez.
Fra i film libanesi, Falafel di Michel Kammoun, che mostra il ritmo di una Beirut notturna, fra la voglia di vivere normalmente e i pericoli latenti ad ogni angolo della città. E assai strano che Sous les bombes, l’attualissimo film del libanese Philippe Aractingi, già pluripremiato e presente a Venezia, non abbia ricevuto alcun riconoscimento a Montpellier. Aractingi ha cominciato a girare all’indomani dell’ultima guerra, quando sono cominciati i bombardamenti israeliani, nel luglio 2006, con un mélange assai riuscito di immagini e suoni reali (il fracasso assordante delle bombe), di repertorio e di fiction. Due soli attori professionisti: l’abbagliante Nada Abu-Ferhat e l’ironico Georges Khabbaz. Una madre ritorna da Dubai (il tema dell’esilio è nell’essenza dell’animo libanese) alla ricerca del figlio, nel Sud del paese, di cui non ha più notizie. Un tassista l’accompagna in questa ricerca disperata. Se Aractingi non mostra né cadaveri, né sangue – “la realtà era troppo cruda per fare del voyerisme” – e fa anche ridere i sui personaggi, colti pure in momenti di forte sensualità, non si può dimenticare che quest’ultima guerra ha distrutto, in un mese, un paese: ha fatto 1200 morti e un milione di sfollati (100.000 bombe e 50 morti al giorno).
La sua “testimonianza” ci appare per questo trascendere il Libano e dire in un linguaggio universale: no alla guerra.